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Quando arrivò la notizia, forse non eravamo preparati. Io ero troppo incosciente per capire. Non sapevo cosa era davvero la mia città. Parlavo di Mafia, sì, ma con la stessa leggerezza con la quale si parla di qualcosa che non si sa bene cosa sia davvero. Ne parlavo poco, perché gli adulti ci dicevano che "meno se ne parla, meglio è". Non mi ponevo nemmeno il perché.
Ma una bomba è qualcosa di diverso. Una bomba di quelle dimensioni fa pensare alla guerra. Non era la prima e non sarebbe stata l'ultima. Ma così plateale, così prepotente, non si era mai vista. Le immagini della nostra autostrada, che non si riconosce più, con quell'enorme buco, ci mise paura. Quella era la nostra autostrada. Quella strada che ogni estate io e la mia famiglia percorriamo per andare in villeggiatura. L'autostrada dei palermitani. L'autostrada del mare, delle case abusive che ormai caratterizzano la costa tra Palermo e Capaci. L'autostrada che porta all'aeroporto, al vero ponte tra Palermo e il resto del mondo. I giornalisti snocciolavano i nomi dei morti. Rocco Dicillo, Vito Schifani, Antonio Montinaro, Giovanni Falcone, Fancesca Morvillo, uno dopo l'altro. Ed era come se avessero ucciso i familiari di ogni palermitano, di ogni italiano. Non si discuteva d'altro. Noi ragazzini, che non sapevamo il perché, ma che avevamo capito che qualcosa era davvero cambiata nella nostra città, ci raccontavamo episodi di chi era transitato da quella strada qualche ora prima, o qualche minuto prima; di chi si era visto venire addosso dallo specchietto retrovisore dell'auto un'onda di cemento e catrame. Io, un po' con terrore, un po' con  l'incoscienza adolescenziale di chi vuol fare colpo suoi propri compagni, raccontavo che anche mio padre era passato di lì qualche ora prima. C'era caldo a Palermo. Per noi era la fine della scuola. Si pensava alle vacanze, al mare. Ma intorno l'atmosfera era diversa.
I miei ricordi sono così deboli. Mi rammarico di aver dimenticato, di non essere in grado di fare una cronaca completa di quello che avvenne in quella fine di Maggio del 1992, almeno ai miei occhi. Ma un ricordo indelebile, e che trattengo prezioso nella mia memoria, è la catena umana alla quale partecipai, quasi ad un mese dalla Strage di Capaci. Centinaia di persone, di tutte le età, di ogni estrazione sociale - così come giornalisticamente si dice - davanti al Palazzo di Giustizia, che di lì a poco sarebbe diventato uno dei luoghi più blindati d'Italia, con decine di militari (l'operazione dei Vespri) a protezione della giustizia. Uno accanto all'altro, mano nella mano, sguardo nello sguardo. Un cordone umano che univa il Palazzo di Giustizia alla casa di Falcone, con le spalle ancora pesanti dalle macerie di una bomba appena scoppiata, e ignari che un'altra da lì a breve avrebbe sconvolto nuovamente questa città. Era il 24 giugno del 1992 ed io compivo 14 anni. 

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