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A Palermo, all’interno del castello della Zisa, che in arabo significa la splendente (al-ʿAzīza), talmente magnifica era ed è questa costruzione del 1165 voluta da Guglielmo I, è conservata una stele funeraria. È una notizia come tante, quasi una banale frase di una qualsiasi guida turistica. La stele, dedicata ad una certa Anna madre del chierico Grisandus, che chissà se mai si sarebbe immaginata di diventare inconsapevolmente tanto famosa, possiede però una particolarità, che la innalza da semplice monumento medievale a simbolo universale. La stele è quadripartita, e in ogni parte viene ricordata la defunta in quattro lingue: greco, latino, arabo ed ebraico. Cosa significa questo? Non è stato certamente un mero vezzo erudito da parte del dedicante. Il suo quadrilinguismo è sintomatico, e rivela, in maniera semplice  ma così tanto straordinariamente incisiva, la natura multiculturale della Palermo normanna del XII sec. Una capitale splendida e ricca, dove commercianti arabi vendevano tessuti e spezie ai greci ortodossi o facevano affari con gli ebrei. Una città dove, forse ancora si potevano sentire gli ultimi muezzin richiamare i fedeli alle preghiere, e le loro squillanti voci mischiarsi ai rintocchi delle campane delle chiese cristiane. Una città dove arte e architetture arabe, bizantine e nord europee si sono fuse insieme, a sancire l’unione di un continente ormai scomparso: il Mediterraneo. Cosa rimane a noi di tutto ciò dopo mille anni? Mi verrebbe da dire nulla. Certo, Palermo oggi parla più di quattro lingue, si sono aggiunte svariate sfumature colorate di pelle, vi sono molti matrimoni misti, i negozi degli arabi sono un’infinità... ma dove è andata a finire la sua regalità, la consapevolezza di essere capitale, il suo profondo spirito culturale? Da qualche parte ci deve essere. Indubbiamente tutto si è ridimensionato. Mille anni sono lunghi e non si può così facilmente dare spiegazioni, e non è certo la mia intenzione. Quanti nomi, quante facce ha cambiato questa città: dalla Zyz fenicia alla Panormus greca-romana, dalla Balaarm araba alla Palermo moderna. Tante anime che hanno lasciato ognuna la propria eredità genetica. Stenta a rialzarsi Palermo. In questi ultimi decenni, ogni volta che sembra voglia cambiare pelle, rialzare la testa per mostrare i suoi splendenti occhi, inevitabilmente ricade pesantemente sulle sue ginocchia. Un dolore lancinante e un urlo sommesso che non esce. Chi la ferisce alle gambe? Chi le impedisce di rimettersi in piedi? I suoi stessi figli, che la vogliono aggiogata come giovenca stanca e vecchia, pronta solo ad ubbidire e a sopportare senza lamenti. Io sono uno di quei tanti figli che se ne è andato di casa. Guardo questa vecchia madre stanca con occhi teneri, con quella giusta nostalgia di chi sta lontano. Ma questa distanza forse riesce a darmi la possibilità di cogliere, con lucida oggettività, ciò che ancora chi abita nel suo grembo non vuole riconoscere o semplicemente chiude gli occhi per non soffrire più del dovuto. Da poco ho rivisto Palermo. Le sue strade mi hanno narrato abbandono e sconforto, gli occhi della gente mi hanno rivelato amarezza e sconfitta. I vicoli, che un tempo frequentavo e che consideravo alla stregua di casa mia, tanto a mio agio mi sentivo, sono ormai alla mercé di delinquenti e mafiosi, che pretendono di ridurre la città a proprio parco giochi, dove sono loro a fare le regole: pochi che comandano la maggioranza. E se poi, si arriva al punto di festeggiare ogni sera, tra i vicoli dei quartieri del centro storico, con fuochi d’artificio la scarcerazione di sei boss mafiosi, il quadro che va via via delineandosi è davvero macabro e fastidiosamente aberrante.Voglio, comunque, consolarmi con quanto di ancora splendente questa città riesce ad avere e a dare: fosse pure una piccolissima parte, nascosta, non considerata dalla massa, che stenta anche a tenersi in piedi, essa è la fiammella tremolante di un’anima che rimane viva, e fintanto vi sarà qualcuno che la alimenti, Palermo rimarrà la capitale del Mediterraneo. 

Troppo spesso durante la giornata si parla della crisi economica che ci sta distruggendo, dell’inettitudine dei governi, dei complotti mondiali perpetrati dalle banche e dai ricchi. Sono sempre le stesse frasi. Poi, dimentichi di tutto, ritorniamo alle nostre occupazione, alla nostra vita. Come interpretare questo atteggiamento? Forse è solo un’autodifesa. O forse non vogliamo che la situazione cambi, perché perderemmo la nostra comodità; in fondo, non credo che si possa affermare di annegare nella vera disperazione. Perché queste parole? Perché ieri Massimo Tennenini, antropologo e fotografo, ha portato un pezzo di Chiapas a Matera. Attraverso le sue foto ci ha raccontato la forza e la disperazione di quel popolo, antico e nobile, che combatte giorno per giorno per la propria dignità e per costruire un proprio mondo diverso dal resto. Allora la piccola e quotidiana realtà che ci circonda diventa un po’ più nitida e meno protagonista. C’è un mondo vasto là fuori. A volte lo dimentichiamo, volutamente forse, ma esiste, si muove, combatte, soffre, soccombe.

"Donna si sottopone al rito
della purificazione"- Citta del Messico 2003
(foto di Massimo Tennenini)
Massimo Tennenini si presenta con uno sguardo timido. Parliamo un po’. Porta sotto braccio le stampe di alcune sue foto. Ne ha portate tante per l’allestimento della mostra che si svolge giù nei Sassi, in una galleria d’arte. Nel pomeriggio, all’interno della Bottega del commercio Equo e solidale, è prevista una proiezione di alcune sue foto, e un classico “incontro con l’autore”. Lui vorrebbe che esponessimo anche qui alcune stampe. Naturalmente ne sono contento. Con dita sapienti e riservate prende una ad una le foto e me le mostra. Succede qualcosa. Può sembrare romanzesco o stucchevole, ma ho avuto la sensazione che tutto si trasformasse attorno a me. Non so se il magnetismo degli occhi di una ragazzina combattente dell’esercito zapatista, o l’infinità melanconica del deserto di Atacama.

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I sassi, la Gravina, la Murgia: il connubio perfetto
In questi giorni due amici, Francesco e Simona, sono in viaggio in una delle terre più estreme e più sognate del mondo: la Patagonia. All’estremità del pensabile questa terra. Non la conosco, tranne che per quel piccolo libro di Sepúlveda. Non solo non la conosco, ma non so nemmeno immaginarla. So solo che quando si pensa ad una terra lontana, la Patagonia è un buon esempio. Però, a dirla tutta, anche la nostra terra è alla fine del mondo, basta solo invertire le parti e mettersi nei panni degli abitanti della Patagonia: per loro l’Italia è davvero lontana. Se poi pensiamo al nostro profondo sud, diventiamo ancora più estremi ai loro occhi. Che differenza c’è tra loro e noi? Il ghiaccio e il freddo contro i nostri territori spopolati e arsi dalla violenza di un sole caldo e umido. So di azzardare un po’. Sto facendo l’equilibrista sul filo di questo paragone. Ma si può trovare anche un fondo di verità.

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Via delle Beccherie
Molte volte quando parliamo della nostra vita utilizziamo il condizionale: "avrei potuto", "avrei dovuto"; l'utilizzo delle frasi ipotetiche poi, in tutti i gradi possibili nella nostra lingua, sono le più gettonate: "se non avessi fatto...", "se solo avessi intrapreso...", "se mi fossi lasciato consigliare...", "se avessi accettato..."; l'elenco è svariato e lungo. E', invece, meno utilizzato il presente. Non si vuole, forse, dare peso a ciò che si fa. Potremmo chiamarla la lingua della nostalgia o del rammarico.
La costruzione di vite che avremmo potuto vivere è un gioco diabolico. In un primo momento ci sentiamo bene. In fondo il sogno è condizione neccessaria per l'uomo. Ma immaginare forzatamente ciò che non potrà mai avvenire è una sorta di masochismo psichico, che ci auto-infliggiamo volontariamente, e non si sa bene perché.

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Palermo lontana

Ora che la vedo da lontano
così  distesa come donna assonnata e i capelli umidi e neri
e seni grandi da allattare chiunque.
Gambe aperte allo scirocco bollente e umide cosce,
con gocce di sudore piene di spine e croci spezzate.

Donna non troppo sincera, ride al mare sempre uguale,
dove con poca disinvoltura bagna i suo sguardi.
Donna di olio e di spari, di ammiccamenti pieni di parole pesanti e tristi.

Ma cosce sempre aperte per tutti, come un buco nero risucchia la luce
che portate voi viandanti che non sapete, che credete di incontrare la luce scolpita nel tufo
come una volta, ma non c’era una volta, c’è  solo quello che vi viene messo sulle spalle;

donna che piange ogni giorno, che graffia i seni delle donne che non hanno più lacrime;
donna piena di meraviglie contorte,
ambigui sospiri che sembrano gemiti di godimenti barocchi;

poi ride perché la piccola Santa nata dalla sua testa continua a passeggiare come bambina ingenua,
ma non sa che i suoi vestiti ormai trasudano sangue nero,
ed il Luglio preferito, quello lontano secoli, schiaccia solo lumache morte.

Donna che sa tutto, e non vuole ancora imparare ed insegnare,
perché nega d’essere puttana,
perché non vuole che il mondo si accorga della sua età;
ma continua a pettinarsi i capelli unti specchiandosi nei nostri occhi;

e noi facciamo l’amore con violenza e senza la tenerezza consueta,
e mordiamo con rabbia i suoi occhi neri,
lecchiamo voraci la terra della sua bocca,
godiamo infilandoci nel suo umido ventre e cerchiamo i se e i perché
legati con fil di ferro e minacciati dalle pantomime delle callose mani.

Ora che la vedo da lontano vorrei fare l’amore con lei,
ora che la vedo da lontano e il suo volto diventa favola mitica
mi inginocchierei davanti ai suoi arabi seni e piangerei…
ora che la vedo da lontano i suoi sorrisi possono ingannarmi,
ora che la vedo da lontano ripasso sul palmo delle mie mani
le vendette, la Vucciria sporca e vuota, la chiesa maestosa delle sue preghiere infami,

e quegli occhi chiusi di chi l’ha amata troppo…

(Matera 2009)

Barbara Balzerani (foto di Andrea Semplici)
Avrei dovuto scrivere queste pagine qualche giorno fa, come si dice “a caldo”. Stranamente, però, non sono proprio riuscito a buttare giù nemmeno una parola. Pensieri tanti, invece. L’elaborazione sulla serata della presentazione del libro di Barbara Balzerani, Compagna Luna, mi è risultata lenta e laboriosa. Non so bene quello che voglio scrivere. Proseguendo sono convinto che le parole arriveranno. La scrittura, a volte, assomiglia ad una diga crepata; le parole se ne stanno ferme, sbarrate da una muraglia; ne escono poche dalla crepa. Ma più quelle escono più la crepa si allarga e, in fine, la diga va in frantumi e le parole travolgono ogni cosa. Lascio che la crepa si allarghi poco alla volta, senza fretta.

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Lo “strazzo” è stato fatto. La 624° festa di SS. Maria della Bruna può essere definitivamente archiviata. La santa deve ben riposarsi per un anno intero adesso. Il giorno più lungo per la città di Matera, il 2 Luglio, è finito. Ognuno ne trarrà, in questi giorni, le proprie impressioni. Le discussioni sui singoli momenti della festa si sprecheranno per le prossime settimane, animando i caffè, le piazze.
Il carro della Bruna (2013)
È una festa strana la Madonna della Bruna. A volte sembra un’attesa estenuante. Ore e ore fermi ad aspettare sempre qualcosa. Poi, improvvisamente, tutti iniziano a correre o a camminare velocemente. Succede qualcosa. Oppure ci si lascia suggestionare dalla massa. Forse non c’era nulla per cui valesse la pena andare veloci, forse un gruppetto di persone andavano semplicemente di fretta per conto loro, ma, come un effetto domino, decine di altre persone ne vengono influenzate.
Vi sono momenti topici che non dovrebbero mai sfuggire durante questa festa. Io me ne fa ne faccio sfuggire tanti. Mi giustifico dicendomi, e dicendo ai miei amici, che non sono materano. Non sento ancora davvero questa festa. Non posso tradire così facilmente la mia Santuzza Rosalia, il mio Festino.

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parte frontale del carro
Quest’anno il carro è davvero bello. Più o meno la frase che molti materani stanno ripetendo in questi giorni. Il carro è quello della festa della Madonna della Bruna che si svolge a Matera da ben 624 anni (oggi è il 2 luglio 2013). Una festa che fonda le radici in culture pagane, certamente. Una festa che non ha abbandonato il suo aspetto pagano e cruento. Il carro, simbolo ed emblema della festa, è costruito in legno e cartapesta. Materiali poveri. Una struttura leggera che faciliti la sua distruzione. Tra poche ore il carro verrà assaltato da decine di persone e fatto letteralmente a pezzi.

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Chissà se Ernesto Guevara conosceva la Lucania e chissà, cosa ancora più difficile solo da immaginare, se conosceva Matera. Non lo so. Anzi, sono convinto che non ne aveva la minima idea.
Ma ieri sera Andrea Semplici è diventato lo strano trait d'union  tra il “Che” e Matera. Lui, Andrea, che conosce bene sia Matera sia Ernesto Guevara.
Andrea Semplici, così come recitano alcune biografia sparse per internet, è giornalista e viaggiatore (in alcuni siti ho letto anche nomade). Quando lo incontri per la prima volta non crederesti mai, almeno è quello che ho pensato io, che abbia girato mezzo mondo. Forse un indizio te lo forniscono le varie macchine fotografiche dalle quali non di distacca mai. Ma è un indizio ingannevole. Anche molti turisti portano con loro più di una macchina fotografica. Poi quel suo modo lento di camminare, quella sua espressione vaga, quella sua pigrizia di sottofondo lo allontanano decisamente dallo stereotipo del viaggiatore. Sono le sue parole, scritte o narrate con la sua voce fiorentina, che lo svelano nei suoi abiti da viaggiatore.

Gli anfibi slacciati di Ernesto Guevara. Viaggio in Argentina sulle tracce del Che”, questo è il titolo dell’ultimo libro di Andrea Semplici, che ieri sera (27 giugno 2013) è stato presentato a Matera. Non voglio raccontare il libro di Andrea, compratelo se volete (http://libri.terre.it/?idm=4&idn=372), né fare qui una recensione, non è il mio mestiere. Mi alletta molto di più l’idea di raccontare la serata e i giorni preparatori a questa presentazione.
Da dove è iniziato tutto? Da troppo lontano per cercare di riassumere tutte le vicende, per riallacciare i fili; ma non c’è nulla da riallacciare. Le cose avvengono per caso, per assonanze o per semplici coincidenze. È sono proprio quest’ultime le preferite di Andrea – lo ripete sempre –  e ci stiamo credendo anche noi. Il tutto, comunque, forse inizia un anno fa, quando un gruppo di amici di Andrea gli propone una serie di presentazioni di alcuni suoi libri. Lui accetta, senza pensarci. Gli amici sono tanti. Musicisti per passione o per professione, appassionati di lettura e di viaggi, o semplicemente amici. Altri se ne aggiungono lungo la strada, e vengono ammaliati dal fascino affabulatore di questo fiorentino, che sta diventando, o già lo era, più meridionale di noi.

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interno del carcere: foto tratta da
Il secondo incontro inizia come il primo. Gli stessi riti: i saluti, le strette di mano e i baci sulle guance. Lungo il corridoio che porta a quello dove sono le classi, si aprono i cancelli automatici che introducono nei bracci delle celle. Questa visione si trasforma in angoscia; sapere che lì dentro si svolge la maggior parte della giornata dei detenuti mi riporta alla realtà, alla consapevolezza di essere dentro un carcere. Camminiamo lentamente lungo il corridoio: io e Chicca forse con una naturalezza che sa di costruito, Claudia e Liliana con la disinvoltura di chi quei luoghi li conosce proprio bene. Le guardie con indolenza aprono, di volta in volta, i cancelli. Al petto ognuno di noi porta un cartellino dove c’è scritto che siamo visitatori. È una parola strana in questo luogo. Non c’è nulla da visitare. Non siamo parenti. Siamo estranei. Non saprei bene dire che cosa rappresentiamo per i detenuti. Il sorriso di benvenuto dei ragazzi riesce però, in un modo così improvviso da stupire, a sciogliere tutta la tristezza che mi si era formata all’entrata. Il carcere si trasforma in un luogo quasi normale. Il ghiaccio è stato completamente sciolto. Non c’è più nessuna remora – se mai ce ne fosse stata qualcuna. 

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Ingresso principale del carcere
www.trmtv.it/home/cultura/2010_06_17/10908.html
Dentro il carcere il tempo è diverso. Il tempo ha una scansione lenta e ripetitiva. Nessuno si preoccupa dell’orario, ma solo degli appuntamenti fissi: il pranzo, la cena, la partita di calcetto, la lezione di informatica, il turno in cucina. La giornata è suddivisa in base a questi appuntamenti. Non importa in che ora vengano fatti. È importante invece la scansione temporale della carcerazione. Se chiedi ad un detenuto da quanto tempo sta rinchiuso, o fra quanto uscirà, non ti risponderà mai in modo vago, ma precisando in anni, mesi e giorni. Questo è il solo tempo che importa. Il resto non ha senso. Le giornate sono uguali a se stesse. Lungo i corridoi i detenuti sembra facciano sempre gli stessi gesti. Ma è una percezione deformata dalla mia concezione del tempo. Tra un incontro e l’altro trascorre una settimana, a volte anche due. Allora credi che tutti si siano fermati nel momento in cui tu hai voltato le spalle e sei uscito dal cancello principale. Non è poi così facile riuscire ad immaginare cosa accada realmente durante tutta la giornata, perché quando sei lontano dal carcere ci pensi poco.

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Credo sia quasi ossimorico dire legalità in carcere. Ma non è proprio vero. La legalità in carcere è un concetto che si conosce bene. Chi sta in carcere, ci è entrato proprio perché conosce bene il limite tra illegalità e legalità.
Noi ci siamo entrati come degli alieni. Pensavamo di potere insegnare qualcosa. Alla fine siamo stati educati noi. Non proprio inaspettatamente. Forse me lo immaginavo.
ingresso al carcere: foto tratta dawww.sassilive.it
Quando mi hanno chiedo di portare il mio spettacolo “La terra delle arance. Canti e cunti dell’antimafia sociale” all’interno del carcere, esternamente non ho fatto una piega. Non volevo che si mostrassero sul mio volto le perplessità che mi nascevano dentro. Uno spettacolo che narra le vicende di chi è morto per combattere la criminalità come può incontrare i favori di un pubblico formato da detenuti? Questo, più o meno, è stato il mio pensiero. Il pensiero è svanito quasi subito. Allora è subentrata la consapevolezza che ciò che stavo realizzando era qualcosa di veramente importante.
Ma prima di presentare, così nudo e crudo, lo spettacolo, era necessario preparare i detenuti. Era necessario fare degli incontri. E così è stato. Tre incontri con i ragazzi che frequentano la scuola superiore all’interno del carcere prima dello spettacolo, ed altri cinque dopo lo spettacolo.
E così ad aprile del 2013 ha inizio il Progetto Legalità. Decidono questo titolo gli educatori che si occupano quotidianamente dei detenuti.

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La terra delle arance è un luogo lontano e vicino. Una terra che sta dentro di me, fin da quando sono nato. La mia terra. Un luogo dove l'anima si rifugia nei momenti bui.
Oggi è l'inizio di un viaggio diverso da tutti quelli che ho fatto o soltanto immaginato.
La terra delle arance è una terra in mezzo al mare color del vino. Il mare dei greci e fenici. Il mare di chi ha cercato una speranza nuova.
La terra delle arance è l'isola che ho ritrovato. L'isola che per anni ho tenuto nascosta. Ora tutto si chiarisce.
Quindi, benvenuti in questo viaggio.

Peppino

Che significa il ricordo
Sotto un cielo che è  sempre crespo come sempre
Nello specchiarsi in un mare che sbuffa uguale a prima
E le spine dell’agave che puntano
Verso quella sperduta ferrovia che andava verso qualcosa che non conoscevo
Due misteriose braccia di ferro
E giochi di chi non sa
Sotto il mio bel sole di fuoco,
e quel treno non troppo veloce che ci parla che ci sorride
guardiamolo scivolare lento e le ombre accartocciate vanno via con il sole

ma poi un giorno mi sparano in faccia un nome duro
e quasi familiare
di un amico che conoscevo forse in una vita che non ricordo
ma il nome riemerge con la violenza dello scirocco
che brucia la gola e gli occhi si chiudono

il gioco sui binari finisce
l’agave maestosamente punge tutti i miei pensieri
e penso che io nasco quando lui muore
e penso che io guardo ora ciò che lui ha puntato con l’indice,
e penso che beviamo lo stesso mare
ci ubriachiamo dello stesso sole
e penso che le facce che un giorno lui ha urlato al cielo
io le ritrovo ancora sedute nello stesso angolo
e lo penso e lo piango e lo rivedo per quel corso
e lo intravedo a Magaggiari, a Cala Rossa,
e penso che lui ancora vive mentre noi siamo già stati sepolti.

Cinisi, solo una parola, una strada, una piazza, un mare
Cinisi, un confine per me, un mistero, una confessione, un ricordo,
Cinisi, solo un semaforo nella notte estiva,
Cinisi, soltanto un punto tra qui e lì ,
Cinisi, poi rabbia, violenza, vendetta, rimpianto
Cinisi, gli occhi di una vecchia madre, gli occhi di tante madri,
Cinisi, lacrime secche, occhi di vetro, cuori grigi
Cinisi, paura e terrore, facce di pietra
Cinisi, lontana da me, ricordo di un’infanzia, dei giochi su una tomba


Cinisi, solo Peppino!

(Matera 2009)

Quando il tempo passò e i giorni rallentarono come passi di bradipo, Y si girò guardandosi la schiena e cercando con lo sguardo di staccarsi le frecce del passato, conficcate da chissà quanto tempo, ma non più doloranti ma soltanto fastidiose.
Non sapeva da quanto camminava nel Deserto del Disgusto. Il tempo si era dipinto di misera relatività.
 Il Santone era appollaiato sulla testa della Giraffa di alluminio e i suoi lunghi capelli erano conficcati nel terreno con tanto di rami contorti e pieni di foglie langhe e lucide, dai quali pendevano dei frutti ben maturi.
 Y arrivò ad un tiro di starnuto. Si fermò, si grattò la punta del naso, si sedette su una radice di capelli aggrovigliati e iniziò a pensare.
Le stelle correvano veloci rimbalzando sul volto della luna. Il sole stanco sorgeva un giorno sì e uno no.
Y pensava nella medesima posizione. Quando aveva fame raccoglieva i frutti maturi che cadevano dalle rami del santone, ne toglieva i quattro strati di buccia e ne gustava la polpa che aveva un sapore di saggezza.
Ci fu un’alluvione, un terremoto e un meteorite precipitò vicino Y, ma lui era troppo intento a pensare: l’alluvione lo dissetò, il terremoto fece cadere una quantità di frutti bastevoli per tre pianeti, il meteorite provocò un cratere dal quale sgorgò una sorgente d’acqua ad una temperatura costante di ventotto gradi, emettendo vapori che mantenevano l’atmosfera perennemente mite.
I pensieri di Y cadevano a terra come dadi, ma i numeri non erano mai quelli giusti.
Quando un millepiedi color meraviglia sbadigliò e l’eco del suo sbadiglio toccò tutti gli angoli del Deserto del Disgusto, Y cambiò posizione, ma i suoi pensieri non riuscivano ad entrare nelle buche del biliardo del ricordo.
Il cielo si strappò e discesero veloci i sospiri delle nuvole.
L’anno svoltò l’angolo con la pesantezza dell’Elefante e Y aveva già i capelli colore alluminio.

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SCARAFAGGI - ATTO UNICO

Cosa mi ha portato a scrivere questo testo? La semplice voglia di gridare; la voglia di denunciare. Non sono il primo ad aver scritto qualcosa del genere, ma ora faccio parte di quella esigua schiera di persone che, abbandonato il conformismo teatrale (così come si faceva negli anni 70), trovando nella libera giovialità della parola il modo con cui potere scrivere, hanno cercato di elevarsi, o forse per esprimersi meglio, di porsi a lato rispetto al teatro tradizionale.
La semplice voglia di gridare, è proprio questa la molla che mi ha dato lo scatto iniziale per scrivere questo atto unico.
Questo testo non ha una storia, ma è un collage di monologhi, di microstorie, di frasi slegate, di poesie già scritte, di pensieri, di improvvisi scatti e di repentini arresti, il tutto cucito da un unico fil rouge che, dall’inizio alla fine, non solo tiene assieme il testo ma cerca, e spero che ciò possa riuscire, di legare alle frasi, ad ogni singola parola, anche il pubblico che assiste, ed assiste non in maniera passiva, ma è, letteralmente, il quinto personaggio, senza il quale non avrebbe nessun significato mettere in scena questo testo.
Questo fil rouge è la voglia di libertà, è il cercare di pizzicare le coscienze, di coinvolgere l’attenzione in maniera totale su delle parole che sembrano, a volte, inflazionate, oppure, a volte, desuete: ingiustizia; storia; diritti negati; libertà.

I personaggi sono completamente anonimi, e per questo li ho appellati semplicemente con dei numeri, ma anonimi non sono i fatti, anzi sono fatti conosciuti e quotidiani, fatti che a volte ci passano accanto senza frastuoni, e noi li lasciamo passare; oppure sono fatti che ci fanno indignare per un po’ di tempo per poi lasciarli cadere nell’oblio della memoria.

La storia, e non solo la grande storia, non ci dovrebbe mai abbandonare, ma dovrebbe essere assiduamente presente in ogni nostra azione quotidiana.
 Lo spettacolo è stato messo in scena, dalla compagnia "StiamoStretti" per la prima volta il 28 Febbraio 2009 presso l'Auditorium del Conservatorio Duni di Matera, all'interno della rassegna "Teatriamo. 1° Festival di teatro emergente della provincia di Matera" ed è stato vincitore del premio alla migliore regia.







Scritto e diretto da: Marco Bileddo
Interpreti: Francesco Smaldone, Nancy Citro, Emanuela Sangiorgio, 
Carmen Cambio, Antonia Miola, Nicola Zunino
Tecnico video-audio: Tommaso Schiuma
Tecnico luci: Giulio De Lorenzo


Federico, il protagonista del romanzo, vive in una Sicilia senza tempo, nel ripetersi dei giorni di un piccolo paese, prendendosi cura del suo piccolo bar e dei suoi clienti, sempre gli stessi. È combattuto tra una tremenda voglia di abbandonare quel luogo e un viscerale attaccamento ad esso, convinto che non riuscirà mai a recidere quel cordone ombelicale. L’incontro improvviso, all’inizio del romanzo, con una misteriosa donna gli stravolgerà la vita; attraverso tre lunghi flashback, che rappresentano l’infanzia, l’adolescenza e la maturità, scoprirà, infine, dei segreti che aveva sepolto nella sua memoria. Sia gli amici di Federico che tutto il paese si troveranno, loro malgrado, ad assistere ad eventi strani che porteranno ad un tragico evento. Protagonista assoluto, accanto a Federico, è il “grande albero” di carrubo, attorno  al quale ruota tutta la vita di Federico.

Romanzo onirico, pregno di simbologie, visioni, agnizioni; un viaggio nella mente umana che, irrequieta, cerca di costruire una realtà parallela all’apaticità della vita reale.  


A VOLTE SOLO UNA VITA. 
Una scelta di poesie che riassume sette anni della mia vita, dal 2005 al 2012.
L'ho voluto auto-pubblicare, non per una smania di farmi leggere, ma perché la poesia non può rimanere nelle mani di chi l'ha scritta, è una farfalla che deve essere libera di volare ovunque.


Prefazione di Andrea Semplici 

La voce delle parole
Sono abituato alle parole. Ai trucchi delle parole. Per molti anni, ho fatto delle parole il mio mestiere. Per questo mi ritrovo a diffidare di qualunque parola. Ricordo sempre la autodefinizione di Francesco Guccini (un po’ vanitosa, per la verità): ‘Io, burattinaio di parole’….

Sono in difficoltà quando un amico mi chiede: ‘Scrivi qualcosa attorno alle mie parole’. In genere rimango in silenzio. In imbarazzo, credo. Senza il coraggio di dire di no. Prendo il manoscritto (che non è più tale da decenni) e mi lascio ingannare. Sono un mestierante anch’io: qualcosa scrivo comunque.

Questa volta, per non dare spazio all’inganno, sono uscito. Sono andato in mezzo alla gente. Ho preso un gelato, mi sono seduto sui gradini di Palazzo Lanfranchi. Al tramonto. Piazzetta Pascoli. A Matera. Luogo di appuntamenti, luogo di bellezza e di passeggio. Via vai senza tregua di gente. Materani e turisti mischiati, chiacchiere come rumore di fondo. Questo, ho pensato, è il posto ideale per leggere le poesie di Marco Bileddo.

Perché Marco è una voce. Una voce di strada. Ho conosciuto prima la sua voce che il suo volto. L’ho ascoltata, qualche anno fa, proprio a due passi da Palazzo Lanfranchi. Stava leggendo la pagina di un libro. A voce alta. Era in piedi, fra i tavoli di un ristorante. Mi attirò, mi sorprese. Era una voce del Sud. Ma non di Matera. Di un’altra terra. Allora avevo già cominciato a capire gli accenti del materano e di questo ero certo. Marco mi obbligò all’attenzione. Non sapevo cosa stesse leggendo, era il ritmo ad accompagnarmi verso di lui. Rimasi ad ascoltare per un tempo che non so definire.

Adesso so molte cose in più su di lui. Della sua incertezza, ad esempio. Del suo equilibrio complesso fra geografie distinte. So che è di Palermo. Intravedo nostalgie che, forse, non confessa nemmeno a sé stesso ora che ha scelto (è stato scelto?) un’altra città. Riesco a immaginarlo nel mattino al mercato di Ballarò che ogni giorno fatica ad aprirsi. Immagino una sua notte insonne. In bilico fra malinconia e felicità pura. Immagino le sigarette fumate (per questo la sua voce ha una straordinaria profondità?). Immagino che nelle sue ore notturne, appena trascorse, abbia avuto la compagnia delle stelle. Ho questi pensieri perché ho cominciato a leggere le sue parole. So che Marco ha sapere di pietre antiche, sa leggere i segni di territori riarsi che un tempo ospitarono i villaggi della protostoria. Un giorno mi accompagnò sulla Murgia e me ne parlò. Sì, Marco è archeologo. Per questo è venuto a Matera. Da studente e la città, come spesso capita, non lo ha lasciato andar via. Allora Marco ha mischiato dialetti. Ha affinato l’istinto delle parole. Legge, scrive, fa teatro. Poeta, scrittore, attore. Inquietudine, alla fine. Lo sa, Marco, che la parole non donano pace? Conosce i rischi che sta correndo? So ancora che, una volta all’anno, fa il banditore di un’orchestra di percussioni. Sempre in piazzetta Pascoli, ovviamente. Deve essere il centro del mondo, questo luogo.

Penso anche che Marco abbia qualche tocco di vanità. Ecco le prime parole che leggo: ‘Non ci sono riuscito, mi sono perso….’. Non so quanto sia vero. In parte, sicuramente. Mi distraggo subito, ma non per caso. Mi faccio condurre via dalle parole di una guida abusiva ai Sassi. Ha fascino il suo racconto magniloquente. In fondo è Marco a scrivere: ‘Sulla strada, scorrono le voci/senza scansarle mi ci dissero…’.
La distrazione, credo, che sia un privilegio, se la sai usare bene. Nelle poesie di Marco vi è distrazione. E’ parola che ricorre con abitudine. La luna è distratta, gli sguardi, in uno specchio frantumato, sono distratti. Riesce a distrarsi, Marco? Io so di sì, ma lui prova a negarsi questa capacità: ‘Non riuscire a distrarsi nel silenzio vorticoso del giorno’ . Ecco, un’altra parola-guida: il silenzio. E’ mai possibile il silenzio in una piazza del Sud? Io, uomo del Nord, non riesco a immaginarlo. Qui, al Sud, suoni e rumori sono un sottofondo costante. Rimangono appesi all’aria. Eppure, la voce di Marco sa raccontare un silenzio che appare perfetto interrotto com’è da tutte le sue increspature. Le sue poesie vanno ascoltate in una piazza. Camminare e leggere. Facendosi distrarre. Qualcuno, una volta, mi spiegò: ‘La distrazione è la miglior forma di concentrazione’.

Queste poesie raccontano sette anni di vita. Anni testardi e incerti. I versi sembrano essersi allungati. Come se avessero avuto bisogno di mostrare paesaggi più ampi, più aspri, dove gli orizzonti si confondono con il cielo. Cercano davvero un incedere, le poesie di Marco. A volte inciampano, si risollevano. Non donano consolazione, ma sospendono il tempo. Ancora una volta: è il ritmo a guidare chi legge.

Cerco altre parole-guida. Il vento, ad esempio. ‘Il vento cattivo/ da ogni punto cardinale….’. Il passaggio di un ‘silenzioso vento/a muovere appena un capello già cresciuto’. ‘Se un giorno il vento, questo vento,/mi riporterà il profumo dei/tuoi occhi, la linea/dei tuoi capelli’. ‘Il vento/senza accorgersene/scrolla i ricordi’. Un vento che soffia a Matera. Nelle montagne della Lucania. Un vento che, in estate, ha una dolcezza mite e rinfrescante. Ma ne intuisco la ferocia nei mesi degli inverni. E’ lo stesso vento di Palermo. Delle montagne che fanno corona alla città. Le parole di Marco incrociano questi venti, li confondono, si fanno portare via. ‘Il vento dove si va a posare?’. E forse il vento potrà dare una mano ‘per potere lavare le stelle’. Il tempo di queste poesie è notturno. Anch’io amo la notte, ma divento incerto al Sud: mi sorprendo ad amare con forza la controra, il tempo della siesta, quando il sole è al suo punto più alto e il mondo si acquatta come un gatto stremato. Io cerco di passeggiare in questo tempo deserto. I colori di queste ore sono sbiaditi in un bianco senza gamma. Le notti del Sud, al contrario, quasi donano colore e le stelle non sono un semplice sfondo. Mi piace lo stupore di Marco. E’ quello del mondo. A un certo momento si alza lo sguardo e ci si imbatte nel cielo. E’ sempre lo stesso. Da mille anni, da sempre e per sempre. Ma, ogni volta, si è come sorpresi. Le stelle diventano parole. Diventano una felicità sottile che gioca con la malinconia. Dicono, senza spiegare, qualcosa che non riusciamo a raccontare. Solo i poeti, a volte, ci provano. Spesso non ci riescono nemmeno loro. Marco segue dei cammini: ‘Si abbarbica l’Orsa/alla linea della montagna/sul muro del cielo’. Ha passato l’intera notte nelle campagne, Marco. Fino a quando ‘l’Orsa con uno/sbadiglio/si addormenta’. A volte stelle, vento e distrazione si trovano assieme: ‘A guardare le stelle/non ho più la forza negli occhi/a restare da un leggero/sbuffo di vento’.  Le stelle sono una nostalgia: ‘Ammiro le stelle/nello sfilacciato/ricordo di te’. Le ‘stelle di alluminio’ possono essere ‘una feritoia sottile per far scappare la mia voce’.

Ecco, il tempo è passato. Sfoglio l’ultima pagina. Il cielo si è fatto azzurro-notte sopra i Sassi di Matera. La gente è cambiata, ma non vi è la possibilità di una solitudine in piazzetta Pascoli. Provo davvero a leggere a voce alta. Una donna si distrae dalla bellezza dell’affaccio sui Sassi e si mette ad ascoltarmi. Invita una sua amica  a fare altrettanto. Mi accorgo solo ora che c’è un frontespizio sul manoscritto che mi ha lasciato Marco: ‘A chiunque si ritrovi tra le parole’. 
                                                                                                                                   
                                                                                                                                              Matera, 
                                                                                                                                         Agosto 2012 

Se in quei giorni a Fuzzirt soffiasse un vento da Sud o da Nord, non saprei dire, tanto velocemente i due venti cambiavano direzione, come se si divertissero a farlo per una loro personale burla.
Era facile vedere un cappello volare dalla testa di qualche sfortunato, seguirlo mentre fluttuava trasportato da una folata di vento proveniente da Sud, ed infine osservarlo  poggiarsi lentamente, accompagnato con leggerezza dal vento del Nord, sulla testa di qualcun altro.
La gente cercava di rincasare, ma con molta difficoltà.  I venti, contrastandosi, immobilizzavano le persone. Le strade si spopolarono, e i venti continuarono incessantemente la loro lotta.
La vecchia Gemma era convinta che il vento del Nord aveva fatto un torto a quello del Sud, e quello del Sud, arrabbiato come le bisce smemorate del bosco millenario quando non trovano la loro tana, lo aveva inseguito per più di cent’anni, fino a quando non lo incontrò proprio a Fuzzirt. In paese per molte settimane se ne videro delle belle, perché i due venti proprio non la volevano smettere: se il vento del Sud dava uno schiaffo di Scirocco, quello del Nord rispondeva con un pugno di Tramontana. La gente dopo qualche giorno iniziò a starnutire e a infilarsi a letto con febbroni da cavallo; alcuni anche con febbroni da muli, che sono ancora più fastidiosi, perché l’ammalato diventa anche testardo e non vuole prendere alcuna medicina.

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La Terra delle Arance.
Canti e cunti dell’antimafia sociale
di Marco Bileddo e Piero Pacione.  


Marco Bileddo, cantastorie
Piero Pacione, chitarra e voce
Pasquale Nicoletti, percussioni

Regia – Marco Bileddo

Lo spettacolo “La Terra delle Arance. Canti e Cunti dell’Antimafia Sociale” coniuga teatro e musica. Attraverso le poesie di Ignazio Buttitta, i testi scritti da Marco Bileddo (attore dello spettacolo) e le canzoni di protesta dell’Antimafia Sociale eseguite da Piero Pacione (chitarra e voce) e Pasquale Nicoletti (percussioni), lo spettacolo ripercorre la storia dell’Antimafia e delle lotte per le terre dal 1948, anno della morte del sindacalista Placido Rizzotto, fino alle morti (23 maggio e 19 luglio 1992) dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ricordando figure importanti come quella di Peppino Impastato (morto nel 1978), ed eventi traumatici come l’eccidio di Avola avvenuto il 2 dicembre 1968. Abbiamo creduto più incisivo utilizzare il dialetto siciliano e, in particolare, quello palermitano, per buona parte del testo, per rendere più vera la narrazione, data anche l’origine palermitana dell’attore in scena. 
Casa Cava, Matera 22 dicembre 2012
Lo spettacolo nasce dalla volontà di mantenere viva la memoria di una parte della storia del nostro paese che, a volte, viene dimenticata o poco evidenziata. Crediamo, inoltre, che sia responsabilità di chi conosce questi fatti trasmetterli alle giovani generazioni, perché solo grazie alla diffusione della memoria storica si possono combattere le mafie e l’ignoranza che da esse nasce e prolifera.
Il nostro intento è quello di portare lo spettacolo soprattutto in quei luoghi dove, solo apparentemente, sembra non esistere il problema mafioso, per cercare di tenere sempre viva l’attenzione su questi problemi. Per raggiungere tale scopo, oltre alla visione dello spettacolo, proponiamo al pubblico un dibattito che, sull’onda emozionale dello spettacolo, possa fare emergere domande, risposte, esperienze vissute direttamente o indirettamente, testimonianze su azioni di antimafia, ecc... Per far ciò chiediamo, di volta in volta, la collaborazioni di associazioni locali e, soprattutto, dei presidi cittadini dell’associazione LIBERA, con la quale abbiamo già avviato in Basilicata e con il vice-presidente nazionale Don Marcello Cozzi un rapporto di collaborazione e di amicizia. 
Lo spettacolo ha avuto un grande consenso di pubblico. È stato uno dei momento principali della Giornata Antimafia che si è svolta a Matera il 22 Dicembre 2012 presso la Casa Cava, organizzata insieme all’associazione il VAGABONDO e che ha visto la partecipazione di Libera Basilicata e Don Marcello Cozzi vice Presidente Nazionale di LIBERA, AddioPizzo di Palermo, Osservatorio Migranti Basilicata di Palazzo San Gervasio (PZ), RESS (Rete di Economia Solidale SUD), l’ass. Sassi e Murgia, Antonello Mangano (giornalista e scrittore – collaboratore del Manifesto, Carta, MicroMega), Enrico Montalbano (filmmaker e documentarista, collaboratore di RaiNews, FaiNotizia-RadioRadicale) e il centro sociale di Matera le Fucine dell’ECO. Durante la giornata vi sono stati più di 300 spettatori che hanno assistito allo spettacolo nelle due repliche.

La ferula ferita, Altamura 11 giugno 2013
Date spettacolo:
Matera, Centro Sociale Fucine dell’ECO, 15 giugno 2012;
Matera, Libreria Libromania, 14 settembre 2012;
Pomarico (MT), Palazzo Marchesale, 1° dicembre 2012;
Montescaglioso (MT), Auditorium Wojtyła, durante la giornata della Legalità organizzata dall’Associazione antiracket di Montescaglioso, 18 dicembre 2012;
Matera, Casa Cava, durante la Giornata Antimafia, 22 dicembre 2012;
Bitonto (BA) durante la manifestazione Sbarchi in Piazza con la RESS, 23 dicembre 2012;
Vicchio (FI), Aia santa, 27 Aprile 2013;
 Pisa, ex colorificio/REBELDIA, 28 Aprile 2013;
Matera, Casa Circondariale, 22 Maggio 2013;
Altamura (BA), Danzarte, 31 Maggio 2013;
Altamura (BA), Crepes&Books,11 Giugno 2013;
Matera, Santa Maria d’Armenis, 28 Giugno 2013;
Policoro (MT), 30 Luglio 2013.


                                          Servizio andato in onda il 23 Maggio 2013

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