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Lezioni di legalità nel carcere di Matera - 3

interno del carcere: foto tratta da
Il secondo incontro inizia come il primo. Gli stessi riti: i saluti, le strette di mano e i baci sulle guance. Lungo il corridoio che porta a quello dove sono le classi, si aprono i cancelli automatici che introducono nei bracci delle celle. Questa visione si trasforma in angoscia; sapere che lì dentro si svolge la maggior parte della giornata dei detenuti mi riporta alla realtà, alla consapevolezza di essere dentro un carcere. Camminiamo lentamente lungo il corridoio: io e Chicca forse con una naturalezza che sa di costruito, Claudia e Liliana con la disinvoltura di chi quei luoghi li conosce proprio bene. Le guardie con indolenza aprono, di volta in volta, i cancelli. Al petto ognuno di noi porta un cartellino dove c’è scritto che siamo visitatori. È una parola strana in questo luogo. Non c’è nulla da visitare. Non siamo parenti. Siamo estranei. Non saprei bene dire che cosa rappresentiamo per i detenuti. Il sorriso di benvenuto dei ragazzi riesce però, in un modo così improvviso da stupire, a sciogliere tutta la tristezza che mi si era formata all’entrata. Il carcere si trasforma in un luogo quasi normale. Il ghiaccio è stato completamente sciolto. Non c’è più nessuna remora – se mai ce ne fosse stata qualcuna. 

Siamo amici di vecchia data io e i ragazzi del carcere. Non sento nemmeno nessun imbarazzo a raccontare di me, di quello che faccio fuori, di come è la mia vita che non ha costrizioni e che è libera. La distanza che divide i nostri mondi è come annullata, o forse si crea solo una sospensione di una realtà che, appena fuori da questo luogo, si ripresenta perentoria e che non può avere sotterfugi, non può essere presa in giro,e negare che le nostre realtà sono diverse è solo un meschino e manierato buonismo da quattro soldi. Io non voglio cedere a questi sentimenti costruiti sulla pietà. I ragazzi non elemosinano nessuna pietà. Credo, anzi, che se qualcuno, anche solo per poco tempo, anche solo con una inflessione dello sguardo, si mostrasse compassionevole per la loro condizione, per la sfortuna che, voluta o no, gli si è avventata addosso, si irrigidirebbero, e sarebbe per loro una condanna ugualmente fastidiosa a quella che scontano. Chi sta dentro il carcere non ha certo bisogno che gli si venga rimarcata la propria situazione; bastano i giudici, gli educatori, le guardie. Basta la presenza di queste persone, o il nominarle semplicemente, per ribadire che per loro la libertà è stata sospesa.
Chi non ha mai avuto un esperienza carceraria, non può realmente comprendere il significato dell’assenza di libertà. A suo modo, Angelo, napoletano di Scampia, vuole spiegarmi quando si è reso conto che gli era stata tolta la libertà. Lo ha capito i primissimi giorni. L’assenza di libertà non era rappresentata dalla cella, dalla chiusura violenta dei cancelli, ma si era manifestata in tutta la sua crudele lucidità nel momento in cui hanno spento i televisori. La prima reazione di Angelo è stata una bella risata. E pensa che nemmeno quando suo padre gli urlava di spegnere la TV lui ubbidiva, abbassava semplicemente il volume. Mi guarda con occhi ben piantati sulla faccia. Mi dice che è stato proprio quel momento che gli ha fatto capire cosa voglia dire l’assenza di libertà. Il suo racconto è leggero. So bene che sta cercando con ogni mezzo di non fare emergere la sua rabbia.
A fatica i ragazzi entrano in classe e si mettono a sedere. Non sono molti.

Riusciamo ad iniziare la discussione. Io e Chicca cerchiamo di focalizzare l’attenzione sul tema della legalità. In fondo siamo qui per questo. Ma cos’è la legalità, cos’è l’illegalità? Quale è il vero limite? Tutti, in questa piccola classe, sono concordi che è troppo meccanicistico dividere la società in legale e illegale. Non è così semplice. Vi sono delle sfumature che loro conoscono bene. Iniziano a sparare una serie di domande alle quale è facile dare delle risposte banali e costruite con frasi fatte. Non sono in grado di rispondere. Ed è proprio questo il punto in cui prendo consapevolezza che tra me e i ragazzi vi è un abisso. Quali risposte adatte davanti all’inevitabile difficoltà di sopravvivere in quartieri come Scampia, o davanti ad assurde odissee che devono affrontare gli immigrati, costretti loro malgrado a delinquere? È l’assenza dello “Stato”, dicono i ragazzi, che ha procurato i peggiori danni. Come faccio a dare da mangiare a mio figlio, mi dice Salvatore, se non accettare un lavoro “a nero” offerto da una famiglia camorrista? Come potere sopravvivere in un paese che ti vuole eternamente irregolare e per questo condannabile, mi chiedono Shasha e Johnson? Io non ho delle vere risposte, di quelle che sono inattaccabili; posso soltanto dire che anch’io vengo da un quartiere difficile, ma che ho cercato in tutti i modi possibili di non farmi ammaliare dal facile guadagno, che ho cercato in tutta la mia vita di battere la strada della legalità. Anche Chicca cerca di dare delle risposte. Lei è molto più brava di me. Racconta storie di chi ha cambiato vita. Racconta il lavoro di Libera. Racconta di quanti immigrati ce l’hanno fatta. Ma non sono questi gli argomenti che interessano i ragazzi. Loro ci vogliono mettere a parte delle proprie esperienze. Non è questo il luogo adatto per parlare di legalità, afferma Angelo. Lui monopolizza la discussione. È un fiume in piena. Parla un italiano fluente e anche ben articolato. Tutto il corpo accompagna le sue parole. Un corpo che una volta era grasso e che adesso è asciutto e muscoloso (in carcere c’è tanto tempo da dedicare alla palestra). Le sue argomentazioni sono ben esposte. Io lo ascolto e non so bene come replicare. Anche gli altri ascoltano. Angelo continua la sua filippica contro lo stato, contro una vita che volta le spalle ai propri figli. Io vengo colpito però dagli occhi di Gigi, malinconici, che se ne stanno in un angolo ad aspettare. Lui mi guarda e sorride. So che vorrebbe dirmi un poema di sentimenti. Ma è proprio difficile fermare quel treno in corsa di Angelo. Gigi è la controparte di Angelo. Anche lui napoletano. Ma a differenza di Angelo lui non ha abbandonato il dialetto. Cerca di esprimersi in italiano, perché sa che non lo capirei. Durante gli incontri successivi mi racconta la sua vita. Gigi è innocente. Sta in carcere perché lo ha voluto la camorra. Sconta la pena di un altro che non poteva stare in carcere. Però Gigi non si è mai proclamato innocente. È consapevole che non può farlo. Lì fuori c’è sua moglie e suo figlio che lo aspettano. Quando parla della sua famiglia gli occhi di Gigi si inumidiscono. Ma non si può piangere davanti ad un estraneo all’interno del carcere.

La storia di Gigi mi ha sconvolto. Ecco la realtà della camorra in tutta la sua crudeltà. Ed io cosa avrei fatto nelle sue stesse condizioni? La storia di Gigi fa vacillare le mie certezze; inclina profondamente l’idea che ho di lotta alla mafia. Gigi è un eroe in qualche modo. È l’eroe della sua famiglia. Lui, giorno per giorno, rinchiuso in quel carcere, sta salvando sua moglie e suo figlio. 




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