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Troppo spesso durante la giornata si parla della crisi economica che ci sta distruggendo, dell’inettitudine dei governi, dei complotti mondiali perpetrati dalle banche e dai ricchi. Sono sempre le stesse frasi. Poi, dimentichi di tutto, ritorniamo alle nostre occupazione, alla nostra vita. Come interpretare questo atteggiamento? Forse è solo un’autodifesa. O forse non vogliamo che la situazione cambi, perché perderemmo la nostra comodità; in fondo, non credo che si possa affermare di annegare nella vera disperazione. Perché queste parole? Perché ieri Massimo Tennenini, antropologo e fotografo, ha portato un pezzo di Chiapas a Matera. Attraverso le sue foto ci ha raccontato la forza e la disperazione di quel popolo, antico e nobile, che combatte giorno per giorno per la propria dignità e per costruire un proprio mondo diverso dal resto. Allora la piccola e quotidiana realtà che ci circonda diventa un po’ più nitida e meno protagonista. C’è un mondo vasto là fuori. A volte lo dimentichiamo, volutamente forse, ma esiste, si muove, combatte, soffre, soccombe.

"Donna si sottopone al rito
della purificazione"- Citta del Messico 2003
(foto di Massimo Tennenini)
Massimo Tennenini si presenta con uno sguardo timido. Parliamo un po’. Porta sotto braccio le stampe di alcune sue foto. Ne ha portate tante per l’allestimento della mostra che si svolge giù nei Sassi, in una galleria d’arte. Nel pomeriggio, all’interno della Bottega del commercio Equo e solidale, è prevista una proiezione di alcune sue foto, e un classico “incontro con l’autore”. Lui vorrebbe che esponessimo anche qui alcune stampe. Naturalmente ne sono contento. Con dita sapienti e riservate prende una ad una le foto e me le mostra. Succede qualcosa. Può sembrare romanzesco o stucchevole, ma ho avuto la sensazione che tutto si trasformasse attorno a me. Non so se il magnetismo degli occhi di una ragazzina combattente dell’esercito zapatista, o l’infinità melanconica del deserto di Atacama.

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I sassi, la Gravina, la Murgia: il connubio perfetto
In questi giorni due amici, Francesco e Simona, sono in viaggio in una delle terre più estreme e più sognate del mondo: la Patagonia. All’estremità del pensabile questa terra. Non la conosco, tranne che per quel piccolo libro di Sepúlveda. Non solo non la conosco, ma non so nemmeno immaginarla. So solo che quando si pensa ad una terra lontana, la Patagonia è un buon esempio. Però, a dirla tutta, anche la nostra terra è alla fine del mondo, basta solo invertire le parti e mettersi nei panni degli abitanti della Patagonia: per loro l’Italia è davvero lontana. Se poi pensiamo al nostro profondo sud, diventiamo ancora più estremi ai loro occhi. Che differenza c’è tra loro e noi? Il ghiaccio e il freddo contro i nostri territori spopolati e arsi dalla violenza di un sole caldo e umido. So di azzardare un po’. Sto facendo l’equilibrista sul filo di questo paragone. Ma si può trovare anche un fondo di verità.

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Via delle Beccherie
Molte volte quando parliamo della nostra vita utilizziamo il condizionale: "avrei potuto", "avrei dovuto"; l'utilizzo delle frasi ipotetiche poi, in tutti i gradi possibili nella nostra lingua, sono le più gettonate: "se non avessi fatto...", "se solo avessi intrapreso...", "se mi fossi lasciato consigliare...", "se avessi accettato..."; l'elenco è svariato e lungo. E', invece, meno utilizzato il presente. Non si vuole, forse, dare peso a ciò che si fa. Potremmo chiamarla la lingua della nostalgia o del rammarico.
La costruzione di vite che avremmo potuto vivere è un gioco diabolico. In un primo momento ci sentiamo bene. In fondo il sogno è condizione neccessaria per l'uomo. Ma immaginare forzatamente ciò che non potrà mai avvenire è una sorta di masochismo psichico, che ci auto-infliggiamo volontariamente, e non si sa bene perché.

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