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Il tempo corre. Con questa breve frase Abani Biswas, il fondatore dei Milón Méla, ha posto la chiosa perfetta ad una settimana di intenso lavoro svolto negli spazi della Casa Laboratorio Cenci (Amelia, Umbria).


Amelia tra le verdi onde - foto di Claudio Graisman


Questo articolo non vuole essere un resoconto dettagliato, né tantomeno un reportage giornalistico. È soltanto un susseguirsi di personali sensazioni, di emozioni, di immagini tratteggiate con lo sguardo di chi ha vissuto profondamente questa esperienza.

Ero partito con la consapevolezza di non sapere cosa avrei trovato. Avevo con me solo qualche informazione. Avevo, soprattutto, la voglia di intraprendere un viaggio in un teatro a me sconosciuto. Questa voglia, a volte, era turbata anche da un normale scetticismo sull'utilità di una esperienza simile. Nei giorni precedenti, ho cercato d'immaginare come sarebbe stato: uno stupido espediente per costruirmi una inutile corazza. Inoltre, mi era anche balenata l'idea di fare alcune interviste, forse ad Abani Biswas, forse a Franco Lorenzoni, uno dei fondatore della Casa Laboratorio Cenci. Anche questo era solo un inutile e banale sotterfugio, per mantenere quella che a me sembrava la giusta distanza. Ma, come ovvio che fosse, tutto è sfumato. Non ce n'era alcuna necessità.
Cenci è un luogo che c'è e non c'è. Poco importa che stia in Umbria, immerso nel proverbiale verde umbro. Questo è solo un particolare in più, che nulla aggiunge e che, soprattutto, nulla toglie alla presenza dei Milón Méla che, da quasi 30 anni, ogni estate vengono qui.

Arrivare a Cenci e incontrare il gruppo teatrale dei Milón Méla, guidati da Abani Biswas, pone nella condizione di lasciare tutto ciò che quotidianamente ci portiamo addosso: abbandonarlo all'ingresso di Cenci; oppure, se se ne ha capacità premonitrice, iniziare a disfarsene lungo la strada che leggera si inerpica verso il paese di Amelia. In fondo non serve nulla. Davanti ai Milón Méla si è quasi nudi. Il tutto avviene con estrema naturalezza. Il gruppo è composto da dodici persone, provenienti da diverse regioni dell'India. 

Se in qualche modo è utile stilare un elenco, allora credo non si possa non iniziare da Abani Biswas. Certamente accanto al nome di Abani è semplice associare parole quali fondatore, ideatore o leader. L'ho immagino invece come il nume tutelare dei Milón Méla. La fiamma, perennemente accesa, attorno alla quale si danza e si balla. Abani è l'ispiratore, la potente malta che lega assieme questo gruppo eterogeneo di arti e artisti. Per Baren, collaboratore di Abani, è davvero difficile trovare una definizione. 


Abani Biswas - foto di Claudio Graisman



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Quando arrivò la notizia, forse non eravamo preparati. Io ero troppo incosciente per capire. Non sapevo cosa era davvero la mia città. Parlavo di Mafia, sì, ma con la stessa leggerezza con la quale si parla di qualcosa che non si sa bene cosa sia davvero. Ne parlavo poco, perché gli adulti ci dicevano che "meno se ne parla, meglio è". Non mi ponevo nemmeno il perché.
Ma una bomba è qualcosa di diverso. Una bomba di quelle dimensioni fa pensare alla guerra. Non era la prima e non sarebbe stata l'ultima. Ma così plateale, così prepotente, non si era mai vista. Le immagini della nostra autostrada, che non si riconosce più, con quell'enorme buco, ci mise paura. Quella era la nostra autostrada. Quella strada che ogni estate io e la mia famiglia percorriamo per andare in villeggiatura. L'autostrada dei palermitani. L'autostrada del mare, delle case abusive che ormai caratterizzano la costa tra Palermo e Capaci. L'autostrada che porta all'aeroporto, al vero ponte tra Palermo e il resto del mondo. I giornalisti snocciolavano i nomi dei morti. Rocco Dicillo, Vito Schifani, Antonio Montinaro, Giovanni Falcone, Fancesca Morvillo, uno dopo l'altro. Ed era come se avessero ucciso i familiari di ogni palermitano, di ogni italiano. Non si discuteva d'altro. Noi ragazzini, che non sapevamo il perché, ma che avevamo capito che qualcosa era davvero cambiata nella nostra città, ci raccontavamo episodi di chi era transitato da quella strada qualche ora prima, o qualche minuto prima; di chi si era visto venire addosso dallo specchietto retrovisore dell'auto un'onda di cemento e catrame. Io, un po' con terrore, un po' con  l'incoscienza adolescenziale di chi vuol fare colpo suoi propri compagni, raccontavo che anche mio padre era passato di lì qualche ora prima. C'era caldo a Palermo. Per noi era la fine della scuola. Si pensava alle vacanze, al mare. Ma intorno l'atmosfera era diversa.
I miei ricordi sono così deboli. Mi rammarico di aver dimenticato, di non essere in grado di fare una cronaca completa di quello che avvenne in quella fine di Maggio del 1992, almeno ai miei occhi. Ma un ricordo indelebile, e che trattengo prezioso nella mia memoria, è la catena umana alla quale partecipai, quasi ad un mese dalla Strage di Capaci. Centinaia di persone, di tutte le età, di ogni estrazione sociale - così come giornalisticamente si dice - davanti al Palazzo di Giustizia, che di lì a poco sarebbe diventato uno dei luoghi più blindati d'Italia, con decine di militari (l'operazione dei Vespri) a protezione della giustizia. Uno accanto all'altro, mano nella mano, sguardo nello sguardo. Un cordone umano che univa il Palazzo di Giustizia alla casa di Falcone, con le spalle ancora pesanti dalle macerie di una bomba appena scoppiata, e ignari che un'altra da lì a breve avrebbe sconvolto nuovamente questa città. Era il 24 giugno del 1992 ed io compivo 14 anni. 

Quando la notte tra il 14 e il 15 gennaio del 1968 i muri delle case si sgretolarono, rivelando tutta la loro fragilità, chissà a cosa pensarono i gibellinesi.

Gibellina dopo il terremoto
Forse che la guerra fredda si era in fine surriscaldata. Che da quelle lontane terre, viste solo qualche volta nel bianco e nero sbiadito di uno dei pochi televisori che erano arrivati in paese, quegli uomini che parlavano straniero avevano schiacciato i loro bottoni. Il pensiero che una probabile terza guerra mondiale potesse avere avuto come punto sensibile da colpire proprio Gibellina, si dissolse facilmente. Era qualcosa di diverso. Non una bomba che veniva dal cielo, ma una forza che veniva dal basso, dalla terra, dal culo della montagna. Era tutto più semplice: il terremoto. La terra si era data una scrollatina, per togliersi un po' di polvere dalle spalle. Poi, improvvisamente, aprire gli occhi e vedersi sopra la testa il cielo stellato. Non più il tetto. Le pareti soltanto brandelli. Le strade non ci sono più, cancellate come un disegno fatto male. La gente inizia ad emergere dai cumuli di macerie. Si guardano con occhi spauriti. C'è chi grida, chi urla alla luna, chi piange solamente, chi non dice niente e contempla il nulla che si è appena creato tutt'intorno. Tutto da rifare. Un mondo che stava lì chissà da quante centinaia di anni inghiottito dalla terra. Vengono in molti per aiutare. Arrivano dal Nord, da paesi che non si conoscevano. Arriva anche la televisione. In paese però non c'è più un televisore per vedere le immagini. Gibellina, insieme agli altri paesi della valle del Belice, diventano famose. Tutta Italia, e forse anche tutto il mondo, impara quei nomi strani, che hanno un sapore arabo. Non c'è nulla da ricostruire.
Porta d'ingresso al cimitero realizzata da Consagra
Si pensa che sia meglio un paese nuovo. Una fondazione ex novo. Una nuova colonia in Sicilia. Quest'isola sa bene cosa vuol dire costruire dal nulla una città. Ce lo hanno insegnato bene i greci e i fenici: per questa terra è una cosa semplice. Semplice, ma non immediata. Bisogna aspettare. Sacrificarsi ancora un altro poco. Per un po' di tempo le nuove case saranno delle tende, quelle militari. E così passano gli anni. Dal nulla sorge la nuova Gibellina, e sembra voltare le spalle a quella vecchia, perché se ne va lontana 11 km. Ma non è così. I Gibellinesi forse abbandonano i ruderi del vecchio paese di malumore, e quando arrivano in questa nuova città, fatta di case basse, nuovissime, di strade larghissime, perché un eventuale altro terremoto non potrà provocare troppi danni – almeno così gli dicono gli esperti –, rimangono un po' interdetti, arricciano leggermente il naso, ma non più di tanto, perché non si può rifiutare un paese nuovo.

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Molto tempo fa, in un‘epoca indefinibile, un gruppo di uomini, donne e bambini, intrapresero un lunghissimo viaggio. L’unico modo per viaggiare era a piedi. I cavalli erano ancora troppo selvaggi per cavalcarli. La mente dell’uomo era ancora troppo distante dal pensare ad altri mezzi di trasporto.
Non sapevano più da quanto tempo viaggiavano. Qualcuno aveva contato venti lune piene, altri trentadue. E non sapevano bene dove stavano andando. Tutto il gruppo non faceva altro che seguire il loro capo Basantum e la veggente Bràdeis che, a loro volta, seguivano gli uccelli che andavano verso Sud.
Si erano messi in viaggio perché stanchi del freddo glaciale che da troppo tempo ormai spirava sul loro territorio e che aveva reso ogni cosa arida e senza vita. Gli animali morivano o scappavano, e gli alberi dai quali raccoglievano i frutti erano tutti secchi. Il fuoco non riusciva più a riscaldava le capanne, e la notte era difficile dormire.
Un giorno, dopo una marcia forzata durata tre giorni e tre notti, troppo stanchi per continuare e attanagliati da una fame incredibile, decisero di fermarsi. Basantum chiamò a raccolta tutto il gruppo. Disse che non era previdente continuare.
«Ho visto che c’è una grande spaccatura nel terreno. Dobbiamo capire cos’è prima di continuare. Ormai si stanno per accendere le stelle. È meglio rimanere qui questa notte. Domani mattina capiremo.»
Il luogo dove si erano accampati era mite, coperto di erba e di piccoli arbusti. I bambini si lanciarono in corse sfrenate, ridendo e giocando alla lotta. Poco alla volta tutti iniziarono a svestirsi delle pesanti pelli di renna. Alla svelta costruirono delle capanne e accesero i fuochi.
Il cielo era limpido e una grandissima luna irradiava una luce splendente. L’euforia si impadronì di tutti. Danze, canti e musica echeggiarono, forse per la prima volta, in quel luogo.
Il mattino successivo il primo a svegliarsi fu Tarantum, il più forte tra i guerrieri. Si guardò attorno e vide un paesaggio mai visto prima. Ovunque volgesse lo sguardo c’erano delle grotte: alcune piccolissime, altre più grandi delle loro capanne. Si avvicinò al ciglio di quella grande spaccatura e notò che nel fondo scorreva un bellissimo corso d’acqua. In quel momento gli si accostò la vecchia Bràdeis, la veggente. Anche lei si guardò intorno. Poi, osservando ciò che stava al di là della grande spaccatura, esclamò:
«Mater Santa. È bellissimo!» (tra le divinità la Mater Santa era più importante e la più venerata).
Poco alla volta anche gli altri componenti del gruppo si avvicinarono. Qualcuno chiese quali parole aveva pronunciato la veggente, e gli risposero che aveva detto che la Mater Santa è bellissima. Il vecchio Cavesus, quasi del tutto sordo fin dalla giovinezza, dopo essere stato esposto per una settimana intera ad una bufera di neve , disse:
«Che ha detto? Materanta è bellissima?”.
Ma qualcuno dal fondo del gruppo ribattè:
«No. Ha detto: Matera è bellissima.» Tutti iniziarono ad indicare il luogo al di là della grande spaccatura e a dire: “è bella questa Matera; è proprio bella Matera.”

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A Palermo, all’interno del castello della Zisa, che in arabo significa la splendente (al-ʿAzīza), talmente magnifica era ed è questa costruzione del 1165 voluta da Guglielmo I, è conservata una stele funeraria. È una notizia come tante, quasi una banale frase di una qualsiasi guida turistica. La stele, dedicata ad una certa Anna madre del chierico Grisandus, che chissà se mai si sarebbe immaginata di diventare inconsapevolmente tanto famosa, possiede però una particolarità, che la innalza da semplice monumento medievale a simbolo universale. La stele è quadripartita, e in ogni parte viene ricordata la defunta in quattro lingue: greco, latino, arabo ed ebraico. Cosa significa questo? Non è stato certamente un mero vezzo erudito da parte del dedicante. Il suo quadrilinguismo è sintomatico, e rivela, in maniera semplice  ma così tanto straordinariamente incisiva, la natura multiculturale della Palermo normanna del XII sec. Una capitale splendida e ricca, dove commercianti arabi vendevano tessuti e spezie ai greci ortodossi o facevano affari con gli ebrei. Una città dove, forse ancora si potevano sentire gli ultimi muezzin richiamare i fedeli alle preghiere, e le loro squillanti voci mischiarsi ai rintocchi delle campane delle chiese cristiane. Una città dove arte e architetture arabe, bizantine e nord europee si sono fuse insieme, a sancire l’unione di un continente ormai scomparso: il Mediterraneo. Cosa rimane a noi di tutto ciò dopo mille anni? Mi verrebbe da dire nulla. Certo, Palermo oggi parla più di quattro lingue, si sono aggiunte svariate sfumature colorate di pelle, vi sono molti matrimoni misti, i negozi degli arabi sono un’infinità... ma dove è andata a finire la sua regalità, la consapevolezza di essere capitale, il suo profondo spirito culturale? Da qualche parte ci deve essere. Indubbiamente tutto si è ridimensionato. Mille anni sono lunghi e non si può così facilmente dare spiegazioni, e non è certo la mia intenzione. Quanti nomi, quante facce ha cambiato questa città: dalla Zyz fenicia alla Panormus greca-romana, dalla Balaarm araba alla Palermo moderna. Tante anime che hanno lasciato ognuna la propria eredità genetica. Stenta a rialzarsi Palermo. In questi ultimi decenni, ogni volta che sembra voglia cambiare pelle, rialzare la testa per mostrare i suoi splendenti occhi, inevitabilmente ricade pesantemente sulle sue ginocchia. Un dolore lancinante e un urlo sommesso che non esce. Chi la ferisce alle gambe? Chi le impedisce di rimettersi in piedi? I suoi stessi figli, che la vogliono aggiogata come giovenca stanca e vecchia, pronta solo ad ubbidire e a sopportare senza lamenti. Io sono uno di quei tanti figli che se ne è andato di casa. Guardo questa vecchia madre stanca con occhi teneri, con quella giusta nostalgia di chi sta lontano. Ma questa distanza forse riesce a darmi la possibilità di cogliere, con lucida oggettività, ciò che ancora chi abita nel suo grembo non vuole riconoscere o semplicemente chiude gli occhi per non soffrire più del dovuto. Da poco ho rivisto Palermo. Le sue strade mi hanno narrato abbandono e sconforto, gli occhi della gente mi hanno rivelato amarezza e sconfitta. I vicoli, che un tempo frequentavo e che consideravo alla stregua di casa mia, tanto a mio agio mi sentivo, sono ormai alla mercé di delinquenti e mafiosi, che pretendono di ridurre la città a proprio parco giochi, dove sono loro a fare le regole: pochi che comandano la maggioranza. E se poi, si arriva al punto di festeggiare ogni sera, tra i vicoli dei quartieri del centro storico, con fuochi d’artificio la scarcerazione di sei boss mafiosi, il quadro che va via via delineandosi è davvero macabro e fastidiosamente aberrante.Voglio, comunque, consolarmi con quanto di ancora splendente questa città riesce ad avere e a dare: fosse pure una piccolissima parte, nascosta, non considerata dalla massa, che stenta anche a tenersi in piedi, essa è la fiammella tremolante di un’anima che rimane viva, e fintanto vi sarà qualcuno che la alimenti, Palermo rimarrà la capitale del Mediterraneo. 

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