A VOLTE SOLO UNA VITA.
Una scelta di poesie che riassume sette anni della mia vita, dal 2005 al 2012.
L'ho voluto auto-pubblicare, non per una smania di farmi leggere, ma perché la poesia non può rimanere nelle mani di chi l'ha scritta, è una farfalla che deve essere libera di volare ovunque.
Prefazione di Andrea Semplici
La voce delle parole
Sono
abituato alle parole. Ai trucchi delle parole. Per molti anni, ho fatto delle
parole il mio mestiere. Per questo mi ritrovo a diffidare di qualunque parola.
Ricordo sempre la autodefinizione di Francesco Guccini (un po’ vanitosa, per la
verità): ‘Io, burattinaio di parole’….
Sono
in difficoltà quando un amico mi chiede: ‘Scrivi qualcosa attorno alle mie
parole’. In genere rimango in silenzio. In imbarazzo, credo. Senza il coraggio
di dire di no. Prendo il manoscritto (che non è più tale da decenni) e mi
lascio ingannare. Sono un mestierante anch’io: qualcosa scrivo comunque.
Questa
volta, per non dare spazio all’inganno, sono uscito. Sono andato in mezzo alla
gente. Ho preso un gelato, mi sono seduto sui gradini di Palazzo Lanfranchi. Al
tramonto. Piazzetta Pascoli. A Matera. Luogo di appuntamenti, luogo di bellezza
e di passeggio. Via vai senza tregua di gente. Materani e turisti mischiati,
chiacchiere come rumore di fondo. Questo, ho pensato, è il posto ideale per
leggere le poesie di Marco Bileddo.
Perché
Marco è una voce. Una voce di strada. Ho conosciuto prima la sua voce che il
suo volto. L’ho ascoltata, qualche anno fa, proprio a due passi da Palazzo
Lanfranchi. Stava leggendo la pagina di un libro. A voce alta. Era in piedi,
fra i tavoli di un ristorante. Mi attirò, mi sorprese. Era una voce del Sud. Ma
non di Matera. Di un’altra terra. Allora avevo già cominciato a capire gli
accenti del materano e di questo ero certo. Marco mi obbligò all’attenzione.
Non sapevo cosa stesse leggendo, era il ritmo ad accompagnarmi verso di lui.
Rimasi ad ascoltare per un tempo che non so definire.
Adesso
so molte cose in più su di lui. Della sua incertezza, ad esempio. Del suo
equilibrio complesso fra geografie distinte. So che è di Palermo. Intravedo
nostalgie che, forse, non confessa nemmeno a sé stesso ora che ha scelto (è
stato scelto?) un’altra città. Riesco a immaginarlo nel mattino al mercato di
Ballarò che ogni giorno fatica ad aprirsi. Immagino una sua notte insonne. In bilico
fra malinconia e felicità pura. Immagino le sigarette fumate (per questo la sua
voce ha una straordinaria profondità?). Immagino che nelle sue ore notturne,
appena trascorse, abbia avuto la compagnia delle stelle. Ho questi pensieri
perché ho cominciato a leggere le sue parole. So che Marco ha sapere di pietre
antiche, sa leggere i segni di territori riarsi che un tempo ospitarono i villaggi
della protostoria. Un giorno mi accompagnò sulla Murgia e me ne parlò. Sì,
Marco è archeologo. Per questo è venuto a Matera. Da studente e la città, come
spesso capita, non lo ha lasciato andar via. Allora Marco ha mischiato
dialetti. Ha affinato l’istinto delle parole. Legge, scrive, fa teatro. Poeta,
scrittore, attore. Inquietudine, alla fine. Lo sa, Marco, che la parole non
donano pace? Conosce i rischi che sta correndo? So ancora che, una volta
all’anno, fa il banditore di un’orchestra di percussioni. Sempre in piazzetta
Pascoli, ovviamente. Deve essere il centro del mondo, questo luogo.
Penso
anche che Marco abbia qualche tocco di vanità. Ecco le prime parole che leggo:
‘Non ci sono riuscito, mi sono perso….’. Non so quanto sia vero. In parte,
sicuramente. Mi distraggo subito, ma non per caso. Mi faccio condurre via dalle
parole di una guida abusiva ai Sassi. Ha fascino il suo racconto magniloquente.
In fondo è Marco a scrivere: ‘Sulla strada, scorrono le voci/senza scansarle mi
ci dissero…’.
La
distrazione, credo, che sia un privilegio, se la sai usare bene. Nelle poesie
di Marco vi è distrazione. E’ parola
che ricorre con abitudine. La luna è distratta, gli sguardi, in uno specchio
frantumato, sono distratti. Riesce a distrarsi, Marco? Io so di sì, ma lui prova
a negarsi questa capacità: ‘Non riuscire a distrarsi nel silenzio vorticoso del
giorno’ . Ecco, un’altra parola-guida: il silenzio. E’ mai possibile il
silenzio in una piazza del Sud? Io, uomo del Nord, non riesco a immaginarlo.
Qui, al Sud, suoni e rumori sono un sottofondo costante. Rimangono appesi
all’aria. Eppure, la voce di Marco sa raccontare un silenzio che appare
perfetto interrotto com’è da tutte le sue increspature. Le sue poesie vanno
ascoltate in una piazza. Camminare e leggere. Facendosi distrarre. Qualcuno,
una volta, mi spiegò: ‘La distrazione è la miglior forma di concentrazione’.
Queste
poesie raccontano sette anni di vita. Anni testardi e incerti. I versi sembrano
essersi allungati. Come se avessero avuto bisogno di mostrare paesaggi più ampi,
più aspri, dove gli orizzonti si confondono con il cielo. Cercano davvero un
incedere, le poesie di Marco. A volte inciampano, si risollevano. Non donano
consolazione, ma sospendono il tempo. Ancora una volta: è il ritmo a guidare
chi legge.
Cerco
altre parole-guida. Il vento, ad esempio. ‘Il vento cattivo/ da ogni punto
cardinale….’. Il passaggio di un ‘silenzioso vento/a muovere appena un capello
già cresciuto’. ‘Se un giorno il vento, questo vento,/mi riporterà il profumo
dei/tuoi occhi, la linea/dei tuoi capelli’. ‘Il vento/senza
accorgersene/scrolla i ricordi’. Un vento che soffia a Matera. Nelle montagne
della Lucania. Un vento che, in estate, ha una dolcezza mite e rinfrescante. Ma
ne intuisco la ferocia nei mesi degli inverni. E’ lo stesso vento di Palermo. Delle
montagne che fanno corona alla città. Le parole di Marco incrociano questi
venti, li confondono, si fanno portare via. ‘Il vento dove si va a posare?’. E
forse il vento potrà dare una mano ‘per potere lavare le stelle’. Il tempo di
queste poesie è notturno. Anch’io amo la notte, ma divento incerto al Sud: mi
sorprendo ad amare con forza la controra, il tempo della siesta, quando il sole
è al suo punto più alto e il mondo si acquatta come un gatto stremato. Io cerco
di passeggiare in questo tempo deserto. I colori di queste ore sono sbiaditi in
un bianco senza gamma. Le notti del Sud, al contrario, quasi donano colore e le
stelle non sono un semplice sfondo. Mi piace lo stupore di Marco. E’ quello del
mondo. A un certo momento si alza lo sguardo e ci si imbatte nel cielo. E’
sempre lo stesso. Da mille anni, da sempre e per sempre. Ma, ogni volta, si è
come sorpresi. Le stelle diventano parole. Diventano una felicità sottile che
gioca con la malinconia. Dicono, senza spiegare, qualcosa che non riusciamo a
raccontare. Solo i poeti, a volte, ci provano. Spesso non ci riescono nemmeno
loro. Marco segue dei cammini: ‘Si abbarbica l’Orsa/alla linea della
montagna/sul muro del cielo’. Ha passato l’intera notte nelle campagne, Marco.
Fino a quando ‘l’Orsa con uno/sbadiglio/si addormenta’. A volte stelle, vento e
distrazione si trovano assieme: ‘A guardare le stelle/non ho più la forza negli
occhi/a restare da un leggero/sbuffo di vento’.
Le stelle sono una nostalgia: ‘Ammiro le stelle/nello
sfilacciato/ricordo di te’. Le ‘stelle di alluminio’ possono essere ‘una
feritoia sottile per far scappare la mia voce’.
Ecco,
il tempo è passato. Sfoglio l’ultima pagina. Il cielo si è fatto azzurro-notte
sopra i Sassi di Matera. La gente è cambiata, ma non vi è la possibilità di una
solitudine in piazzetta Pascoli. Provo davvero a leggere a voce alta. Una donna
si distrae dalla bellezza dell’affaccio sui Sassi e si mette ad ascoltarmi. Invita
una sua amica a fare altrettanto. Mi
accorgo solo ora che c’è un frontespizio sul manoscritto che mi ha lasciato
Marco: ‘A chiunque si ritrovi tra le parole’.